Viene il figlio dell’uomo.
Vegliate!
(Mt 24, 37-44)
“Come fu ai giorni di Noè, così sarà la
venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il
diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè
entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e
inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo. Allora due
uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l'altro lasciato. Due donne
macineranno alla mola: una sarà presa e l'altra lasciata. Vegliate dunque,
perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate:
se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro,
veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti,
perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà”
Ritorna il periodo di avvento
(che significa “venuta”), perché ancora abbiamo bisogno di confrontarci con la
domanda che riguarda la venuta di Dio e della sua giustizia: Dio si interessa di
noi oppure è lontano e assente?
Quando, generazione dopo
generazione, le angosce del vivere fiaccano le speranze e sembra che la notte
non abbia fine, le domande che salgono dalla storia sono sempre le stesse:
“Dio, quando verrai?”, “Come faremo a riconoscerti nel tuo giorno?”.
La venuta del “giorno di
JHWH”, giorno di salvezza e di giudizio, già annunciato dai profeti, diventa
con Daniele la venuta del “figlio dell’uomo” (cfr. Dn 7), una figura enigmatica
in stretto rapporto con Dio, forse una comunità o il capo di una comunità che,
opponendosi alle “bestie”, riceve sovranità universale e gloria.
“Figlio dell’uomo” in
ebraico può significare semplicemente “uomo” ed è un titolo che nei vangeli
ritorna solo in bocca a Gesù per parlare di sé, e custodisce questa ambiguità:
indica un uomo, ma con un rimando stretto al divino e alla sua opera di
giustizia.
“Quando verrà Dio in mezzo
alle nostre sofferenze per rendere giustizia ai suoi servi? Quando verrà il
giorno della sua manifestazione, che sarà tempo di riscatto e salvezza per chi
ora soffre ingiustamente?”. Sono le domande che molti giudei e anche la
comunità di Matteo si ponevano in quegli anni turbolenti e drammatici che hanno
visto la profanazione del Tempio e la distruzione di Gerusalemme, le rivolte giudaiche
e le dure repressioni che le accompagnarono.
Nei capitoli 24-25 del
vangelo sono raccolte le risposte che la comunità matteana ha saputo darsi in
merito a queste grandi domande, alla luce delle parole e della vita di Gesù e
alla luce dell’esperienza di pasqua.
Il linguaggio apocalittico
utilizzato è per noi distante ed enigmatico, ma era diffuso a quel tempo per
incoraggiare a mantenere viva la speranza dentro le tribolazioni del presente.
Innanzi tutto parlando della
“venuta del Figlio dell’uomo” la comunità di Matteo ci testimonia che la
salvezza attesa e invocata ha a che fare con Gesù, cioè passa attraverso di
lui, Figlio dell’uomo, uomo pienamente realizzato e somigliante a Dio, come un
figlio al padre.
Il giorno della salvezza,
passa attraverso Gesù, è il suo giorno, è la sua manifestazione, è un giorno
che viene quando noi ci inseriamo nel solco tracciato da lui e viviamo
concretamente come lui.
Un giorno simile, lo shalom
atteso e invocato, la pace e l’armonia, non avverranno solo in un futuro
lontano e in un mondo nuovo, ma vengono nel presente e nella nostra storia, accadono
qui e ora, dentro le vicende quotidiane, segnate dal mangiare e bere, dallo
sposarsi, dal lavorare, dal vivere l’amore e l’amicizia, dal coltivare i propri
desideri e realizzare le proprie aspirazioni.
Il rischio è vivere
nell’inconsapevolezza, nel non sapere riconoscere l’urgenza del momento
presente, di ogni momento. Come ai tempi di Noè. Qui non viene detto come in Genesi
che le generazioni contemporanee di Noè erano malvagie (cfr. Gen 6,5.12) , è
detto semplicemente che vivevano nell’incoscienza, senza accorgersi di quello
che stava succedendo. La responsabilità che può generare un futuro migliore è
il discernimento nell’oggi, è un “sapere” riconoscere il nuovo che germoglia (cfr.
Is 43,19), un saper leggere e
interpretare i giorni che si vivono (cfr. Lc 12,54-55), è riconoscere che il
tempo è colmo, pieno, e il Regno si è fatto vicino e che perciò oggi è il momento
favorevole (cfr. Mc 1,15).
Ciò che fa la differenza è
qualcosa che non appare immediatamente, al punto che due persone impegnate
nello stesso lavoro avranno due sorti diverse: una sarà presa e l’altra
lasciata. Questa immagine non parla della bizzarria di Dio, ma allude alla
qualità etica delle persone, alla loro interiorità. La venuta del Figlio
dell’uomo ci impegna a vigilare non solo sui tempi, sul “quando” ma anche sul
nostro cuore, che è il primo luogo in cui il Signore può venire a dimorare.
Vigilare, restare svegli e
pronti, significa crescere in questo “sapere”, in questa sapienza, che di per
sé è ignoranza circa il tempo esatto della venuta, ma è attenzione al momento
presente, sempre gravido di Dio, è essere buoni amministratori della casa in
cui viviamo, di noi stessi e delle relazioni che costruiamo (cfr. brano
seguente, vv. 45-51). Proprio perché l’ora è qualcosa di impensato e ignoto
(cfr. vv. 36.44), siamo chiamati a pensare e conoscere il presente, unico tempo
che davvero ci è dato. Così facendo contrastiamo la notte e permettiamo al
giorno del Figlio dell’uomo di sorgere ancora. Così facendo una nuova
convivenza, la nuova Gerusalemme, scenderà dal cielo e sarà fondata sulla
nostra terra (cfr. Ap 21-22) mentre noi, con lo spirito e la sposa continuiamo
a invocare: “Vieni, Marana tha” (cfr. Ap 22,17.20).
Dorina e Fiorenza
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