Le Forze di Polizia formate, equilibrate e competenti
possono avere strumenti importanti per rilevare anomalie in un ambito familiare
apparentemente tranquillo e, successivamente, approfondire come intervenire in
maniera più che efficiente in situazioni “a caldo”.
Risulta evidente, per gli addetti ai lavori, che
servono strumenti per comprendere come e quando interpretare segnali e prendere
provvedimenti. Ma anche qui ci sono delle lacune. Chi decide quale sia il punto
di non ritorno? Il limite dell'anticipazione della tutela? Qual'è l'età del
minore che segna il confine tra essere solo un'aggravante ed essere una parte
lesa a tutti gli effetti?
In questo senso ci si deve muovere, per approfondire e
combattere i preconcetti che rischiano di far vedere maltrattanti ovunque o da
nessuna parte a seconda di quale sia la parte in causa che si segue
assiduamente.
Torniamo quindi al concetto precedente del cambiare la
base per avere strutture diverse e più solide. Ed allora basta con il muro di
omertà dettato dal pensiero comune che se la cosa non mi tocca in prima
persona, non è affar mio. Serve rassicurare con i fatti, chi si espone
denunciando, che non ci saranno ripercussioni né che si verrà risucchiati in un
vortice di doveri e nessuna soddisfazione.
In ogni caso, l'unica vera vittima è il minore. Che,
sia chiaro, non è né il reato, né l'abuso né il contesto in cui vive. Ma una
bambino con pregi e difetti come tutti gli altri. Quindi la fretta di compilare
gli atti, comprendere bene quale sia la strategia da adottare in detta
situazione e la superficialità con cui spesso ci si rapporta alle persone
coinvolte, vanno messe da parte.
L'indurimento della personalità che l'operatore su
strada vive sulla propria pelle non deve compromettere la professionalità e la
delicatezza nell'intervenire in determinati contesti, fragili e precari. Da qui
nasce l'esigenza di approfondimenti ripetuti e costanti per il bene dei
coinvolti, nessuno escluso.
A prescindere dalla parte lesa, risulta fondamentale
costruire un rapporto di fiducia tra chi ha subìto qualsivoglia abuso e chi
interviene per proteggere e punire. Questo è ciò che serve per fare da collante
tra istituzioni e persone in difficoltà.
Senza fiducia si teme e soffre il giudizio altrui, ci
si chiude, ci si vergogna e barrica in un silenzio assordante.
Le istituzioni hanno la responsabilità di competenza
ciò non significa che abbiano la verità assoluta in mano ma neanche che si
possano cullare con alibi dovuti ad un coinvolgimento emotivo. Questo vuol dire
che serve avere un equilibrio molto stabile e mantenere la debita distanza per
non compromettere il lavoro ed il rapporto instaurato.
Serve eliminare le trappole mentali e gli schemi
precostituiti che, come una visione a tunnel, rischiano di far avere
all'operatore una percezione molto parziale del contesto. Il minore è una
persona a tutti gli effetti, magari ha fratelli o altri minori che possono aver
assistito od ascoltato i racconti (anche questa è violenza assistita).
D'altro canto medesimo atteggiamento si deve avere nei
confronti di chi ha posto in essere il maltrattamento, donna o uomo che sia,
che evidenzia malessere tradotto in gesti e comportamenti antisociali e dannosi
per chi ne è coinvolto, l'agente in prima persona.
Senza fiducia, anche in questo caso, non si parla e
non si scoprono le vere e profonde motivazioni che sono ancorate ad un passato
più o meno recente. Il maltrattante perde il pelo ma non il vizio, se non si
accompagna in un percorso, un equivalente di quello che può intraprendere la
vittima, di crescita personale, autocritica, confronto, formazione, evoluzione
tornerà sempre sui suoi passi perché quella è l'unica strada conosciuta e
quello l'unico modo per farsi capire e manifestare i propri bisogni.
Come comprendiamo questo per un neonato che sa solo
piangere, così deve essere per la persona in difficoltà, sia essa una vittima o
un violento.
Il contesto dell'Autorità è da curare allo stesso modo
con molta attenzione, servono strategie per “agganciare” vittima e aggressore,
in luoghi che per le prime devono essere protetti ed accoglienti mentre per i
secondi neutri e sicuri, dove non si senta la necessità di proteggersi e le
corazze, costruite in anni di difficoltà, siano almeno parzialmente abbassate.
Stimolando la curiosità, si possono utilizzare
volantini, organizzare incontri a scuola, appendere manifesti in palestra,
munire di documentazione ad hoc tutti quegli operatori “grezzi” che, per forza
di cose, le persone incontrano quotidianamente come l'estetista, il
parrucchiere, il barista ed altri nei rispettivi settori.
L'obbiettivo primario appare chiaramente quello di
instaurare un dialogo. Quindi l'uso delle parole deve essere accuratissimo. Se
si parla di “problema” a chi ne ha già tanti e non vuole sentirsi ulteriormente
appesantito o giudicato, si compromette l'intero sistema poc'anzi messo a
fuoco. Persone prima di vittime, figli prima di adulti cattivi, dolore prima di
problema, fiducia prima di giudizio. Se si riesce a rivedere il rispettivo
bagaglio culturale e verbale, si possono spostare le montagne.
Un aiuto importante agli operatori penso lo possa
fornire un sistema di formazione, condivisione, confronto che, nel mentre
permette di evidenziare criticità di contesti lavorativi e di intervento, aiuta
l'operatore a scaricare tensioni e dolori, a volte magari portati da casa. Si
deve aver presente che tutti i coinvolti sono PERSONE prima che poliziotti,
assistenti sociali, bambini, vittime, maltrattanti ed ognuno ha i suoi vissuti
e si interfaccia con la realtà del momento nel modo che conosce, che non è
detto sia né sano né corretto.
Serve il controllore del controllore, se mi permettete
il gioco di parole. Ma questa, per funzionare, non deve essere una organizzazione
stratificata e piramidale perché le responsabilità vanno solamente a far
affondare chi sta sotto, alla base. Base cosi importante per un concreto
cambiamento. Il supporto e lo scambio devono essere trasversali, siamo tutti
impegnati, coinvolti e interessati. Per il bene comune si deve tendere la mano
all'altro, chiunque sia, in qualunque contesto si trovi. La prevenzione
mediante aiuto è la soluzione, penso, di buona parte dei conflitti e della
microcriminalità.
Un contributo lo fornisce un approccio non di genere.
Si ha identità biologica, psicologica e sociale. Non si è solamente maschi e
femmine, violenti e vittime. Non si E' mai ciò che si fa, si è un insieme di
cose e, in quel momento, si è commesso quell'errore. Da lì ad essere sempre e
comunque un cattivo, ce ne passa. Chiunque, nessuno escluso, ha commesso errori
con coscienza o no. Ma questo non fa di noi delle brutte persone. Questo capita
ai violenti che per cultura, educazione, schemi sociali errati, ignoranza hanno
messo in atto delle dinamiche che poi, a livello legale, sono punite.
Tutto ciò, sia chiaro, non deve essere una
giustificazione ma una chiave di lettura per permettere a chi interviene di non
isolare il “cattivo” e ipercoccolare la “vittima”. Si deve essere super partes
perché questo è ciò che ci viene chiesto ed è il modo più corretto di
approcciare situazioni di difficile comprensione.
petrablu
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