martedì 10 dicembre 2013

Convegno maltrattamenti 2° parte


Le Forze di Polizia formate, equilibrate e competenti possono avere strumenti importanti per rilevare anomalie in un ambito familiare apparentemente tranquillo e, successivamente, approfondire come intervenire in maniera più che efficiente in situazioni “a caldo”.
Risulta evidente, per gli addetti ai lavori, che servono strumenti per comprendere come e quando interpretare segnali e prendere provvedimenti. Ma anche qui ci sono delle lacune. Chi decide quale sia il punto di non ritorno? Il limite dell'anticipazione della tutela? Qual'è l'età del minore che segna il confine tra essere solo un'aggravante ed essere una parte lesa a tutti gli effetti?
In questo senso ci si deve muovere, per approfondire e combattere i preconcetti che rischiano di far vedere maltrattanti ovunque o da nessuna parte a seconda di quale sia la parte in causa che si segue assiduamente.
Torniamo quindi al concetto precedente del cambiare la base per avere strutture diverse e più solide. Ed allora basta con il muro di omertà dettato dal pensiero comune che se la cosa non mi tocca in prima persona, non è affar mio. Serve rassicurare con i fatti, chi si espone denunciando, che non ci saranno ripercussioni né che si verrà risucchiati in un vortice di doveri e nessuna soddisfazione.
In ogni caso, l'unica vera vittima è il minore. Che, sia chiaro, non è né il reato, né l'abuso né il contesto in cui vive. Ma una bambino con pregi e difetti come tutti gli altri. Quindi la fretta di compilare gli atti, comprendere bene quale sia la strategia da adottare in detta situazione e la superficialità con cui spesso ci si rapporta alle persone coinvolte, vanno messe da parte.
L'indurimento della personalità che l'operatore su strada vive sulla propria pelle non deve compromettere la professionalità e la delicatezza nell'intervenire in determinati contesti, fragili e precari. Da qui nasce l'esigenza di approfondimenti ripetuti e costanti per il bene dei coinvolti, nessuno escluso.
A prescindere dalla parte lesa, risulta fondamentale costruire un rapporto di fiducia tra chi ha subìto qualsivoglia abuso e chi interviene per proteggere e punire. Questo è ciò che serve per fare da collante tra istituzioni e persone in difficoltà.
Senza fiducia si teme e soffre il giudizio altrui, ci si chiude, ci si vergogna e barrica in un silenzio assordante.
Le istituzioni hanno la responsabilità di competenza ciò non significa che abbiano la verità assoluta in mano ma neanche che si possano cullare con alibi dovuti ad un coinvolgimento emotivo. Questo vuol dire che serve avere un equilibrio molto stabile e mantenere la debita distanza per non compromettere il lavoro ed il rapporto instaurato.
Serve eliminare le trappole mentali e gli schemi precostituiti che, come una visione a tunnel, rischiano di far avere all'operatore una percezione molto parziale del contesto. Il minore è una persona a tutti gli effetti, magari ha fratelli o altri minori che possono aver assistito od ascoltato i racconti (anche questa è violenza assistita).
D'altro canto medesimo atteggiamento si deve avere nei confronti di chi ha posto in essere il maltrattamento, donna o uomo che sia, che evidenzia malessere tradotto in gesti e comportamenti antisociali e dannosi per chi ne è coinvolto, l'agente in prima persona.
Senza fiducia, anche in questo caso, non si parla e non si scoprono le vere e profonde motivazioni che sono ancorate ad un passato più o meno recente. Il maltrattante perde il pelo ma non il vizio, se non si accompagna in un percorso, un equivalente di quello che può intraprendere la vittima, di crescita personale, autocritica, confronto, formazione, evoluzione tornerà sempre sui suoi passi perché quella è l'unica strada conosciuta e quello l'unico modo per farsi capire e manifestare i propri bisogni.
Come comprendiamo questo per un neonato che sa solo piangere, così deve essere per la persona in difficoltà, sia essa una vittima o un violento.
Il contesto dell'Autorità è da curare allo stesso modo con molta attenzione, servono strategie per “agganciare” vittima e aggressore, in luoghi che per le prime devono essere protetti ed accoglienti mentre per i secondi neutri e sicuri, dove non si senta la necessità di proteggersi e le corazze, costruite in anni di difficoltà, siano almeno parzialmente abbassate.
Stimolando la curiosità, si possono utilizzare volantini, organizzare incontri a scuola, appendere manifesti in palestra, munire di documentazione ad hoc tutti quegli operatori “grezzi” che, per forza di cose, le persone incontrano quotidianamente come l'estetista, il parrucchiere, il barista ed altri nei rispettivi settori.
L'obbiettivo primario appare chiaramente quello di instaurare un dialogo. Quindi l'uso delle parole deve essere accuratissimo. Se si parla di “problema” a chi ne ha già tanti e non vuole sentirsi ulteriormente appesantito o giudicato, si compromette l'intero sistema poc'anzi messo a fuoco. Persone prima di vittime, figli prima di adulti cattivi, dolore prima di problema, fiducia prima di giudizio. Se si riesce a rivedere il rispettivo bagaglio culturale e verbale, si possono spostare le montagne.
Un aiuto importante agli operatori penso lo possa fornire un sistema di formazione, condivisione, confronto che, nel mentre permette di evidenziare criticità di contesti lavorativi e di intervento, aiuta l'operatore a scaricare tensioni e dolori, a volte magari portati da casa. Si deve aver presente che tutti i coinvolti sono PERSONE prima che poliziotti, assistenti sociali, bambini, vittime, maltrattanti ed ognuno ha i suoi vissuti e si interfaccia con la realtà del momento nel modo che conosce, che non è detto sia né sano né corretto.
Serve il controllore del controllore, se mi permettete il gioco di parole. Ma questa, per funzionare, non deve essere una organizzazione stratificata e piramidale perché le responsabilità vanno solamente a far affondare chi sta sotto, alla base. Base cosi importante per un concreto cambiamento. Il supporto e lo scambio devono essere trasversali, siamo tutti impegnati, coinvolti e interessati. Per il bene comune si deve tendere la mano all'altro, chiunque sia, in qualunque contesto si trovi. La prevenzione mediante aiuto è la soluzione, penso, di buona parte dei conflitti e della microcriminalità.
Un contributo lo fornisce un approccio non di genere. Si ha identità biologica, psicologica e sociale. Non si è solamente maschi e femmine, violenti e vittime. Non si E' mai ciò che si fa, si è un insieme di cose e, in quel momento, si è commesso quell'errore. Da lì ad essere sempre e comunque un cattivo, ce ne passa. Chiunque, nessuno escluso, ha commesso errori con coscienza o no. Ma questo non fa di noi delle brutte persone. Questo capita ai violenti che per cultura, educazione, schemi sociali errati, ignoranza hanno messo in atto delle dinamiche che poi, a livello legale, sono punite.
Tutto ciò, sia chiaro, non deve essere una giustificazione ma una chiave di lettura per permettere a chi interviene di non isolare il “cattivo” e ipercoccolare la “vittima”. Si deve essere super partes perché questo è ciò che ci viene chiesto ed è il modo più corretto di approcciare situazioni di difficile comprensione.

petrablu

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