Giovanni 6, 34-40
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo
pane». Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più
fame e chi crede in me non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete
visto e non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene
a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la
mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà
di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato,
ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre
mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno».
Quest’anno
il 2 novembre è domenica e alle comunità che si riuniscono per l’eucarestia
settimanale vengono proposte non le letture della 31° domenica del tempo
ordinario ma quelle della commemorazione dei defunti. Il brano evangelico è
tratto dal vangelo di Giovanni e in particolare dal lungo discorso sul “pane di
vita” (6,26-58) che interpreta il segno del pane distribuito per sfamare la
folla, compiuto da Gesù in prossimità della festa di pasqua (6,1-15).
Il brano
contiene riferimenti alla “resurrezione nell’ultimo giorno” (vv. 39.40) e alla
“vita eterna” (v. 40), parole che immediatamente utilizziamo per illuminare di
speranza il tema del morire. Ma per comprendere questo testo dobbiamo leggerlo
nel suo contesto, che è l’intero capitolo 6, tenendo conto del fatto che
Giovanni utilizza una stile letterario particolare, caratterizzato da una sorta
di movimento a spirale: apparentemente ritorna di continuo sulle stesse parole
e gli stessi concetti, ma ogni volta con una profondità diversa, dissipando
gradualmente equivoci e fraintendimenti degli uditori.
Per
aiutarci a collocare il brano all’interno del discorso sul pane di vita, lo
leggiamo a partire dal v. 34.
Ancora una
premessa è necessaria: non ci soffermiamo a considerare i risvolti dogmatici
che questo e altri testi giovannei hanno prodotto nel corso dei secoli.
Riteniamo che queste considerazioni, importanti per dare nome al contenuto
della propria fede, non siano decisivi per orientare la nostra prassi verso una
fedeltà a Gesù e alla via che egli ha tracciato.
Ritornando
ora al testo, ci colpisce che l’insistenza sia su una radicale e originaria
volontà di vita da parte del Padre, che non vuole che vada perduto niente di
ciò che è uscito dalle sue mani come dono. Tutto il vangelo di Giovanni è un
progressivo svelamento di cosa sia “vita”: questo termine nel quarto vangelo
ritorna 36 volte contro le 7 in Matteo, le 4 in Marco e le 5 in Luca. La vita
per Giovanni significa una pienezza qualitativa dell’esistenza. E’ salute,
felicità, pace, benessere. E’ lo shalom biblico annunciato dai profeti; nel
linguaggio dei sinottici è il regno che si è fatto vicino attraverso Gesù. L’aggettivo
“eterna” non si riferisce tanto al tempo (una vita che dura eternamente), ma
alla qualità della vita: vita eterna è la vita nella sua pienezza, quella vita
che non viene dopo questa vita terrena, ma che inizia qui e ora, a partire da
questa vita concreta e che è più forte di tutto ciò che è mortifero, più forte
della morte stessa.
La vita, la
vita piena (“eterna”) è il sogno di Dio, la sua passione, ciò che lo muove, la
sua volontà. E Gesù inviato da Dio (“disceso dal cielo”) ha fatto di questa
volontà di vita la sua missione, il senso della sua esistenza (“Sono venuto
perché abbiano vita e vita più abbondante” 10,10), il suo stesso nutrimento:
“Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”
(4,34).
La sua
persona, le opere che compie, le relazioni che costruisce – soprattutto con i
piccoli e gli esclusi – sono rivelazione, “spiegazione” del volto stesso di Dio
(cfr. 1,18), al punto che può dire “Io sono il pane di vita” (v. 35), il cibo
donato da Dio per crescere in pienezza di vita. Gesù è quel nutrimento, già
anticamente simboleggiato dalla manna e dal banchetto allestito dalla Sapienza
(cfr. Pr 9,1-6), che è l’insegnamento stesso di Dio, la parola/evento uscita
dalla sua bocca (cfr. Dt 8,3) per fecondare, dare seme e pane da mangiare (cfr.
Is 55,10-11).
Gesù è pane
perché attraverso di lui “assaporiamo” la parola, la relazione di alleanza con
Dio, e seguendo Gesù assimiliamo quell’amore capace di liberare e di ricreare
sempre, che è l’amore stesso di Dio.
Questo
amore, questa relazione fondata su una parola di libertà sono il nutrimento per
la vita che ci è dato, sono la risposta ai nostri bisogni più profondi: “Dacci
sempre questo pane” (6,34), “dammi quest’acqua affinché non abbia più sete”
(4,15). Ma occorre mettersi in cammino, muoversi, venire verso Gesù, seguire la
sua strada, per “vedere e credere”, per penetrare il mistero della sua vita e
affidarsi a lui. All’inizio del vangelo ai discepoli del Battista Gesù dice:
“Venite e vedrete” (1,39); al termine, del discepolo che arriva alla tomba prima
di Pietro, si dice che “venne, vide e credette” (20,8). Venire a Gesù e credere
in lui sono espressioni che si equivalgono. Il rischio è vedere e non credere
(cfr. 6,36), incontrare Gesù ma non fidarsi della sua parola, sapere di lui ma
non rischiare di camminare dietro a lui e non cambiare nulla nel nostro modo di
vivere e di relazionarci. Eppure lo scopo del vangelo che ci è narrato è
proprio questo, che credendo abbiamo la vita nel nome di Gesù (cfr. 20,31).
Ancora una
volta siamo interpellati su come viviamo la nostra relazione con Gesù, su quali
nutrimenti scegliamo per la nostra vita, su cosa “mangiamo” per crescere in
pienezza. Qual è davvero il nostro pane? A quali banchetti ci avviciniamo per
cercare sostentamento e forza? Cosa vediamo in Gesù? Lui continua a ripeterci:
“Chi crede ha la vita eterna. Sono io il pane della vita”.
Dorina e Fiorenza
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