OPINIONI - La vita scorreva
dentro a dei binari: un lavoro gratificante, un marito, un figlio quasi da
catalogo, bravissimo a scuola, vivace, intelligente. Le priorità quotidiane
erano la realizzazione personale e le soddisfazioni che maturavano naturalmente
in questo contesto. Poi, un giorno, è arrivato Matteo: inaspettato, dopo
quasi undici anni dal primogenito, ma lui nato con una disfunzione neurologica
e una grave disabilità mentale.
La vita di colpo esce dai
binari, deraglia sulla sabbie mobili, il cuore si frantuma in un milione di
pezzi, poi si ricompone ma sarà per sempre un macigno dentro il petto. Si va a
sbattere contro insormontabili pareti di dolore, come pipistrelli chiusi in
gabbia, e se ne esce con la pelle scorticata. La gente non lo sa, ma ci
saranno mille cose che faranno sanguinare quelle ferite.
Le parole dei medici
Si ascoltano con il fiato
sospeso, registrando ogni sillaba, a volte verdetti definitivi che si vorrebbe
polverizzare, ma non si può. Si ritorna a casa in silenzio cercando di far
nascere pensieri positivi da prospettive rovinose: “non farà questo… non farà
quello”. Un lungo elenco di negazioni alle quali non si è mai preparati.
L’incontro con la scuola
La buona volontà di alcuni
singoli è contrastata dalla mancanza di risorse, di preparazione, di
organizzazione: così arrivano tutti quei problemi e quelle limitazioni che si
traducono in negazione di diritti. Bisogna lottare per avere un’insegnante di
sostegno, l’assistente, un tempo scolastico significativo. E terminato il
periodo della scuola si spalanca il nulla.
I centri diurni
O non ci sono, o sono così
privi di risorse che non riescono a diventare ambienti di vita. Chi non ha le qualità
adeguate per interagire con gli altri e adattarsi paga il prezzo di
un’ospitalità problematica e di rapporti faticosi tra le parti (gli operatori,
le famiglie, gli specialisti, le altre agenzie territoriali). E man mano che
passano gli anni si comincia a intravvedere lo spettro del “dopo di noi”,
sempre più inquietante, perché questi figli sono creature senza età, bimbi per
sempre, dai quali non ci si riesce a separare e per i quali si sogna l’isola
che non c’è.
E io, mamma di Matteo, che
fino ho fatto?
E’ come cambiare
all’improvviso la trama di un film, le azioni diventano altre perché non c’è
più tempo di fare, dire, pensare, incontrare e nemmeno volere, c’è il tempo che
resta dall’accudimento continuo di una creatura che non hai mai veramente
partorito, che vivi come un organo interno. Desideri un attimo di tregua ma se
non c’è ti manca perché succhia la tua linfa e tu gli appartieni completamente.
Parrebbe una vita rovinata, tutta al di fuori di se stessi e dei propri bisogni
ma non è così. Avviene una specie di prodigio, ci si distacca dal suolo
e si va a vivere a un’altra altezza, cambia il significato, lo spessore, lo
scopo dell’esistenza. Io ho imparato a circoscrivere e a godermi ogni
singolo momento di felicità, perché la felicità è un diritto sacro di ogni
essere umano, bisogna volerla e custodirla per sé e per chi ci sta a cuore. Ho
imparato a desiderare solo quello che ho e mi sembra di avere tanto. Trovo
negli occhi di Matteo un’infinita sapienza, la verità sul destino dell’uomo.
Lui è come un passero dentro al nido, come un fiore che si schiude e profuma
appena il Sole lo sfiora. Lui che mi abbraccia forte e mi dice “io sono tuo
figlio”. La sua vita così essenziale per l’universo e per me è la verità che
cercavo.
Marinella Smilovich
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