martedì 24 marzo 2015

Cosa impara una madre da suo figlio


OPINIONI - La vita scorreva dentro a dei binari: un lavoro gratificante, un marito, un figlio quasi da catalogo, bravissimo a scuola, vivace, intelligente. Le priorità quotidiane erano la realizzazione personale e le soddisfazioni che maturavano naturalmente in questo contesto. Poi, un giorno, è arrivato Matteo: inaspettato, dopo quasi undici anni dal primogenito, ma lui nato con una disfunzione neurologica e una grave disabilità mentale.
La vita di colpo esce dai binari, deraglia sulla sabbie mobili, il cuore si frantuma in un milione di pezzi, poi si ricompone ma sarà per sempre un macigno dentro il petto. Si va a sbattere contro insormontabili pareti di dolore, come pipistrelli chiusi in gabbia, e se ne esce con la pelle scorticata. La gente non lo sa, ma ci saranno mille cose che faranno sanguinare quelle ferite.

Le parole dei medici
Si ascoltano con il fiato sospeso, registrando ogni sillaba, a volte verdetti definitivi che si vorrebbe polverizzare, ma non si può. Si ritorna a casa in silenzio cercando di far nascere pensieri positivi da prospettive rovinose: “non farà questo… non farà quello”. Un lungo elenco di negazioni alle quali non si è mai preparati.

L’incontro con la scuola
La buona volontà di alcuni singoli è contrastata dalla mancanza di risorse, di preparazione, di organizzazione: così arrivano tutti quei problemi e quelle limitazioni che si traducono in negazione di diritti. Bisogna lottare per avere un’insegnante di sostegno, l’assistente, un tempo scolastico significativo. E terminato il periodo della scuola si spalanca il nulla.

I centri diurni
O non ci sono, o sono così privi di risorse che non riescono a diventare ambienti di vita. Chi non ha le qualità adeguate per interagire con gli altri e adattarsi paga il prezzo di un’ospitalità problematica e di rapporti faticosi tra le parti (gli operatori, le famiglie, gli specialisti, le altre agenzie territoriali). E man mano che passano gli anni si comincia a intravvedere lo spettro del “dopo di noi”, sempre più inquietante, perché questi figli sono creature senza età, bimbi per sempre, dai quali non ci si riesce a separare e per i quali si sogna l’isola che non c’è.

E io, mamma di Matteo, che fino ho fatto?
E’ come cambiare all’improvviso la trama di un film, le azioni diventano altre perché non c’è più tempo di fare, dire, pensare, incontrare e nemmeno volere, c’è il tempo che resta dall’accudimento continuo di una creatura che non hai mai veramente partorito, che vivi come un organo interno. Desideri un attimo di tregua ma se non c’è ti manca perché succhia la tua linfa e tu gli appartieni completamente. Parrebbe una vita rovinata, tutta al di fuori di se stessi e dei propri bisogni ma non è così. Avviene una specie di prodigio, ci si distacca dal suolo e si va a vivere a un’altra altezza, cambia il significato, lo spessore, lo scopo dell’esistenza. Io ho imparato a circoscrivere e a godermi ogni singolo momento di felicità, perché la felicità è un diritto sacro di ogni essere umano, bisogna volerla e custodirla per sé e per chi ci sta a cuore. Ho imparato a desiderare solo quello che ho e mi sembra di avere tanto. Trovo negli occhi di Matteo un’infinita sapienza, la verità sul destino dell’uomo. Lui è come un passero dentro al nido, come un fiore che si schiude e profuma appena il Sole lo sfiora. Lui che mi abbraccia forte e mi dice “io sono tuo figlio”. La sua vita così essenziale per l’universo e per me è la verità che cercavo.
Marinella Smilovich

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